Dalla “vacatio” verso la “vacanza”, passando per la “festa”
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Pensieri in vacanza di Giovanni Siri
Non è del tutto esatto dire che nei tempi premoderni esisteva una centralità della dedizione al proprio ruolo di apporto alla vita della “città” (della tribù, del clan, del castelli, del ducato…) che non lascia spazio positivo a quella qualità di esperienza che oggi definiamo “vacanza”.
Da sempre accanto al tempo dedicato al buon funzionamento o alla sopravvivenza del gruppo cui si appartiene, c’è un tempo che non è ancora (come oggi) “per sé stessi”: si tratta pur sempre di un tempo “pubblico” e di un'esperienza destinata a rafforzare il legame sociale, ma non è caratterizzato da compiti funzionali o “dovuti”. È il tempo del “rituale”: tempo di festa o di celebrazione.
Il greco e il romano, ma anche il vichingo o il gallico, hanno nella loro agenda sociale e mentale uno spazio, molto importante, per momenti di festa e celebrazione. La prima più legata alla riconciliazione con gli dei o la natura, per i nostri predecessori potenze misteriose a cui segnalare rispetto; la seconda più legata a momenti umani di positività, come una vittoria sul nemico o un buon raccolto o l’avere portato a termine la costruzione di un totem o di una cattedrale.
Sono momenti in cui spicca la partecipazione comune a un'esperienza positiva che legittima espressione di gioia e piacere: il canto, il ballo, la musica, la sfida amichevole fanno parte integrante di questi momenti perché modalità “innate” di condivisione “fisico-sensoriale” di uno stato di eccitazione. Incluso naturalmente il momento del pasto e delle libagioni, spesso arricchite da erotismo.
Nel medioevo accadeva che i padroni del castello allestissero sontuosi pranzi nel cortile del castello, utilizzando suppellettili e stoviglie colorate e raffinate, con servitori in livrea, e con accompagnamento di musica e di spettacoli di recitazione o di abilità. A questo “spettacolo” assistevano anche i non convitati, i villici, che non erano ovviamente convitati ma partecipavano del senso di “celebrazione” della potenza e ricchezza del loro signore, garanzia comunque di sicurezza e prosperità, e di orgoglio di appartenenza, anche per loro stessi. La dimensione della festa/celebrazione unisce l’aspetto dell'espressione individuale di gioia e piacere con quella di appartenenza e consolidamento dell'identità della comunità.
Una variante straordinaria fu apportato dai greci, fin dal 776 a.C., con l'istituzione delle Olimpiadi dove lo sport si lega alla dimensione di festa e celebrazione. La peculiarità delle olimpiadi, così come intese da quei greci, sta nel dare sacralità alla dimensione della competizione, della lotta: insomma di accettare e nobilitare il conflitto. Già la narrazione omerica dell’Iliade è di per sé una celebrazione della lotta, dello scontro, dell’eroismo e dell’orgoglio: la lettura del testo stupisce oggi noi pacifisti per la cura estetica e ammirata della ferocia dello scontro e della battaglia. Quei greci non erano voyeuristi del macello; semplicemente avevano accettato che il conflitto e lo scontro fanno parte della condizione umana: tra uomini e dei, e anche tra gli stessi dei. Ed era una realtà importante e profonda, pervasa di sacro come tutto ciò che va al di là dei nostri voleri e della nostra capacità di comprenderne le ragione ultime.
Recentemente sono stato in mezzo ad un caldo assurdo e a una calca incredibile ad Arona (spinto dai nipotini) ad ammirare le frecce tricolori che effettuavano le loro geometriche acrobazie sullo specchio del lago, tra il castello e il Sancarlone. E debbo confessare che l’apparire da dietro i monti a nord di questi dieci velivoli in formazione che si avventavano su di noi per poi aprirsi disegnando un fiore tricolore mi ha colpito. Pur con tutto il cinismo verso le migliaia di persone che accorrono in cerca di eventi per riempire la giornata che “deve” essere di festa (ci torneremo), il rombo di quelle piccole macchine lucenti e agili e il disegno dei colori della bandiera nel cielo mi ha colpito come quando da bambino esultavo quando c’era nel western l’arrivo ide nostri. Di colpo, è stato come se sentissi reale l’esistere di una realtà potente che ci vuole bene, forse addirittura la patria (?!). Un'eco di ciò che era, prima di noi, il senso della “festa” che rafforza l’appartenere a qualcosa che va oltre te, assieme agli altri della tribù.
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