Skip to main content

Spunti di riflessione

 

Cosa significano per noi (italiani) oggi le vacanze

Pensieri in vacanza di Giovanni Siri

Del nostro modo di intendere e vivere la vacanza è già rivelatore il fatto che per indicare questa realtà usiamo il termine al plurale: le vacanze

È un plurale non casuale perché riflette la diversità di possibili vacanze (per luogo, stagione, tipo di viaggio, residenza, attività, compagnia…) e soprattutto la varietà di cose che si possono (e ci si aspetta di) fare nella stessa vacanza.

Un'empirica analisi del contenuto delle risposte che ottengo dagli amici quando chiedo «E cosa vuoi fare in queste vacanze?» contiene di norma almeno alcune di queste aspettative: riposare, rilassarmi, prendermi cura di me, non pensare a niente, fare cose diverse o nuove, scoprire luoghi e cose da fare interessanti e originali, divertirmi, stare in compagnie intriganti, lasciarmi un po' (!?) andare, dimenticarmi della vita di tutti i giorni, stare a contatto con la natura, ritornare alle cose essenziali, mettermi alla prova, parlare davvero con la mia compagna/il mio compagno (attenti: le statistiche confermano che la maggioranza delle cause di divorzio si avviano dopo un periodo di vacanza insieme!), visitare città d’arte, fare un tour gastronomico, conoscere gente nuova, paesi e culture diverse, esercitarmi nell’inglese, non fare un tubo e vivere alla giornata, buttare via l’agenda...

Potete allungare anche di molto questo esemplificativo elenco, credo con facilità. Sta di fatto che il termine è vacanze un contenitore di possibilità-desideri molto molto ampio. Il che la dice lunga sul carico di aspettative che questa dimensione-esperienza porta con sé diventando un vero e proprio oggetto di desiderio.

Le aziende dovrebbero (alcune lo fanno) creare una rete di contatti interni ed esterni, con tour operator, con filiali e consociate estere, per offrire stimoli e occasioni insolite e vantaggiose ai loro dipendenti: si tratterebbe di una mossa efficace per rafforzare il senso di appartenenza e mostrare sensibilità alle persone e non solo ai dipendenti. Ma soprattutto sarebbe una mossa utile per ricucire lo strappo che si sta registrando tra mondo del lavoro e “tempo libero”, di cui il fenomeno (sopravvalutato ma reale) della resignation e quello (reale e documentato) dello scarso livello di engagement (con l’Italia al più basso livello di engagement, secondo l’osservatorio Gallup).

Al di là della molteplicità dei significati attribuiti da ciascuno di noi all'esperienza vacanze tutti siamo d’accordo sul fatto che si tratta dell’apice del nostro tempo libero. Un tempo cioè liberato dal lavoro e da tutto ciò che sa di obbligo, di coercizione, di dovere… di qualcosa subito e non scelto, lontano da ciò che vorrei/sognerei di fare se potessi scegliere liberamente… (salvo scoprire che quando ho del “tempo libero” davvero alla fine non so bene cosa fare, oppure che mi annoio dopo un po' di poter fare quello che voglio).

Si scopre così che nell’inconscio collettivo il lavoro è il prototipo di tutto ciò che «non è realmente me, non esprime il mio vero desiderio e potenziale» le vacanze sono invece il momento in cui posso «ritrovare me stesso, fare la mia strada», o anche soltanto «evadere»”.

Si capisce con questo vissuto sotteso la scelta delle vacanze diventa spesso impegnativa e foriera di tensioni e litigi: non si può rischiare di sprecare questa temporanea occasione che riguarda me. Il che spiega, essendo in gioco dei me diversi, i conflitti e i litigi tra partner in queste occasioni, e la scelta crescente di fare vacanze separate. E spiega il bisogno coattivo, una volta tornati dalle vacanze, di raccontarle, normalmente dipingendone gli aspetti di scoperta, di meraviglia, di esperienze significative (a qualsiasi titolo): segno che probabilmente nulla di davvero all’altezza delle attese si è davvero verificato, dal momento che si è narrato le cose desiderate, e quindi che “non abbiamo”. Le cose che ci riempiono davvero si condividono al massimo nella intimità di relazioni vere, non si sbandierano al vento, perché sentiamo di avere ricevuto in qualche modo un dono prezioso che va tenuto al riparo dalla superficialità e dal chiacchiericcio.

Per i più giovani che ancora non lavorano, o lo fanno ma con la riserva mentale di una provvisorietà temporanea, le vacanze tendono a intridere il tempo quotidiano: loro non vivono ancora la separazione rigida tra tempo dell’obbligo e tempo del proprium (ciò che è specificamente di me stesso, mio nel senso più profondo), e tendono a fare di ogni momento un'evasione o un viaggio esplorativo, magari solo alla ricerca di un pub diverso dal solito. E le vacanze possono consistere più nel viaggio aperto, senza mete precise, magari improvvisato con pochi compagni all’ultimo momento.

Per noi adulti tende a crescere la fascinazione di vacanze dedicate al tempo per il proprio sé psicofisico: salute, benessere, relax e scoperta. Per tutti comunque la cosa decisiva è che le vacanze offrano l’opportunità di sciogliere (o almeno allentare) i legami con i ruoli e i personaggi che la società, il lavoro, la scuola, i parenti, gli stessi amici abituali: liberarci dalle maschere, dare spazio a ciò che è represso dalla camicia di forza dei doveri quotidiani, scoprire in sé attitudini e tratti di personalità insospettati (il successo dei club di animazione o dei viaggi guidati in culture/realtà diverse). Non siamo in bolla con noi stessi, e nel tempo “normale” non siamo liberi di lavorare su noi stessi (e le nostre relazioni): il tempo normale è un tempo “non libero”. Così il tempo delle vacanze si dilata, diventando il culmine del “tempo libero”, quello in cui viviamo davvero in prima persona. Il fallimento delle vacanze, quando diventano un'esperienza deludente, porta con sé un senso di occasione sprecata, di semi-fallimento, con rabbia, nostalgia, e un vago senso di colpa.

Eppure proprio la modernità consumista che ha fatto delle vacanze un immenso business rischia di rovinarci questa preziosa occasione. Perché elevano il livello di promessa/attesa a quella di un paradiso, parola che etimologicamente deriva dal persiano pairidaeza, da cui anche l'ebraico pardeš, attraverso il greco παράδεισος, con il significato primitivo di "giardino recinto", "verziere", "parco" : portando quindi con sé tutta la meraviglia del giardino in cui l’umanità è perfetta, ma anche a rischio di compromettere tutta l’armonia di cui gode dentro e intorno a sé. In qualche modo anche noi temiamo, dinanzi a un periodo di “tempo libero-vacanze” di perdere l’occasione, di compromettere una rara possibilità.

Il marketing delle vacanze alza il tiro delle aspettative e promette di soddisfarle quantitativamente, mettendo nel pacchetto un sacco di cose e di possibilità, ottenendo con ciò di impedirci di ascoltarci e comprendere di quale tempo libero, di quale qualità di vacanze, abbiamo davvero bisogno. Il business delle vacanze rischia di trasformare anche le vacanze in una sorta di “obbligo di divertirci” o di fare “esperienze particolari”, rendendo la vacanza il lavoro più difficile di tutti: perché in questo caso non possiamo neppure prendercela con qualcun altro, se non con noi stessi.

Quindi il tempo delle vacanze è prezioso ma non facile, e richiede un impegno del tutto particolare: capire cosa ci manca davvero e trovare come procurarcelo. E magari da quello spazio di riconciliazione con sé stesso considerare quel tempo “prigioniero” per uscire dalla contrapposizione tra lavoro e tempo libero e trovare o ritrovare il senso positivi del lavoro che faccio, o di quello che vado a fare. Perché se il ritorno al “tempo del lavoro” diventa il rientro nel carcere, allora la vacanza rischia di assomigliare all’intervallo in cui il fegato di Prometeo incatenato ricresceva, per poi tornare perennemente ad essere lacerato dagli artigli e uncinato dal becco dell’aquila che se lo rimangiava, perennemente.

 

Photo by Daniel Lloyd Blunk-Fernández on Unsplash

Tempo di lettura: 8min