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Spunti di riflessione

 

Come pensiamo la guerra in Ucraina

A cura del Prof. Giovanni Siri

È appena uscito un sondaggio commissionato dall’ISPI (Istituto Studi Politici Internazionali, una realtà para-istituzionale che studia gli scenari di politica internazionale, presidente onorario Giorgio Napolitano: vedete in questi giorni spesso intervistato in TV Paolo Magri, direttore attuale) e svolto da IPSOS dedicato a raccogliere le opinioni degli italiani sulla guerra in Ucraina.

Il report si intitola naturalmente“Guerra in Ucraina: Cosa pensano gli italiani?” e lo trovate sul web. Sottolineo l’uso del termine cosa pensano gli italiani, perché come in tutti i sondaggi ci si aspetta un contenuto, ovvero la quantità di un accordo con una affermazione proposta dall’intervista (questionario on line, ormai sempre: e dovremmo anche discutere una buona volta seriamente sulla attendibilità di significato di questo modo di raccogliere informazioni). Se faccio un sondaggio su un partito, per esempio, voglio sapere cosa pensano di quel partito, anzi più precisamente voglio sapere quanti sono i suoi supporter e quanti gli oppositori (ovviamente non c’è tempo -costerebbe fatica e denaro - per capire come intendono quel partito, cosa ne sanno, come si rappresentano il suo ruolo…).

Ma anche in un sondaggio si può leggere molto più di questo: oltre al cosa pensa la gente a proposito di un certo argomento, si può almeno intravedere come pensano, che tipo di prospettiva e categorie utilizzano nel rispondere. E anche il modo in cui sono poste le domande permette lo stesso tipo di insight, a ben vedere: insomma possiamo utilizzar queste rilevazioni (molto elementari, in apparenza) per cogliere la mentalità che sta dietro e che passa come cosa normale, ovvia, scontata - la “semplice realtà quotidiana” che è in realtà fatta dalla stratificazione consolidata di abitudini mentali e di consenso generalizzato: quello che tutti pensano spontaneamente, in una certa società e in un certo periodo storico. E che a distanza di tempo o da un altro luogo sembrano strani o sbagliati, comunque “diversi” dai convincimenti ovvi che guidano questi osservatori.

Ma veniamo al dunque, e proviamo a fare questo esercizio sul questionario Ipsos approntato per l’Ispi.

La prima domanda è presentata così:


Sembrerebbe tutto scontato (visto quello che ci ripetono tutti i giorni i media) a livello di cosa, del contenuto. Ma sul come possiamo osservare aspetti che non vediamo perché sono abituali per noi, ma non per questo i più efficaci o gli unici possibili.

Sia il titolo (Putin indiziato) sia la formulazione della domanda presuppongono che bisogna guardare a questa realtà (definita abitualmente dai media “Guerra/aggressione dell’Ucraina”) come a una cosa cattiva e ansiogena per cui occorre trovare un colpevole, un imputato (indiziato). Per noi psicologi si tratta di un ragionamento corto che ha l’urgenza di trovare una soluzione immediata ad una situazione complessa e in cui è incerto se noi siamo davvero senza partecipazione di colpa. Un bambino che correndo per casa urta un tavolo e si fa un po' male correrà piangendo dalla mamma dicendo che “il tavolo mi ha fatto la bua” e che “il tavolo è cattivo”. Ma anche un marito abbandonato dalla compagna dirà che è una traditrice, che è colpa sua, o di qualcuno che si è messo di mezzo, probabilmente. E se la squadra per cui tifiamo perde, ovviamente la colpa è dell’arbitro, o al più dell’allenatore o di un giocatore antipatico che va cambiato.

Quado siamo coinvolti in un evento che ci toglie qualcosa cui riteniamo di avere diritto, ci getta in ansia o paura, scatta la scorciatoia del ragionamento antropomorfo-moralista che si basa sulla categoria non della causa ma della colpa e persegue il duplice obiettivo di trovare un colpevole (uno, non tanti) e di stabilire chiaramente che quello non sono io. È la logica dei western di una volta (cowboy bianchì buoni VS indiani cattivi) o del colonialismo europeo dell’800 (negri incivili VS bianchi civilizzatori): insomma ci siamo capiti, si tratta di logiche emotivo-affettive che hanno lo scopo di semplificare la realtà immaginando che noi innocenti abbiamo diritto a un veloce ritorno alla “normalità” con la punizione di un cattivo chiaramente colpevole.

Naturalmente il modo in cui è posta la domanda spinge ad attivare questa prospettiva (per non parlare del titolo con cui è introdotta). Ma è chiaro che oggi l’Europa, area del mondo che ha vissuto da più di 60 anni e vive tuttora il maggior benessere al mondo, è spaventata dalla possibilità concreta (direi ormai un'inevitabile realtà che però non vogliamo ancora vedere) di dover rivedere i propri standard (medi, ovviamente i più ricchi non risentiranno di questo décalage inevitabile) di qualità della vita. La guerra in Ucraina è la minaccia al nostro benessere, e questo ci fa paura: da qui il ragionamento emotivo-morale che traduce tutto nella ricerca semplificata di un colpevole. Non si tratta di disputare sul fatto che Putin sia o meno colpevole o malato di mente (si è detto pure questo, come si è detto che la Seconda guerra mondiale è da imputare alla follia di Hitler), si tratta di comprendere che realtà come una guerra che rischia di aprire le porte alla terza guerra mondiale e che rivede gli equilibri geopolitici tra l’impero americano e quella parte di mondo che sfugge al suo controllo non può ridursi a una singolarità umana, per potente e influente sia.

Il fatto è che non siamo abituati a ragionare per sistemi complessi, per prospettive storiche, per interazione di fattori diversi: siamo ancora in un pensiero causale e lineare della prima rivoluzione industriale, abituati ad avere il controllo e (noi in Europa e in Italia in specie) ad avere garantito come un diritto il benessere eccezionale di cui mediamente godiamo: quindi reagiamo alla paura di perdere tutto ciò con scorciatoie e accuse morali a qualche cattivo, e cerchiamo la “mamma” Europa o America perché ci garantisca continuazione dei privilegi goduti fin qui.

Allo stesso modo nelle nostre aziende cerchiamo di mantenere una organizzazione rigida e paramilitare pur di fronte a cambiamenti che richiedono flessibilità agilità e apertura strategica alla dimensione specificamente personale, umana.

Tornando alle risposte ottenute dalla prima domanda del questionario Ispi-Ipsos, qualcosa di interessante emerge ancora, anche rispetto al come pensiamo attorno a questo fatto della guerra.

Il 65,3% attribuisce la colpa (guidati però dal modo in cui è formulata la domanda, ricordiamolo) a Putin o a Zelensky, abboccando alla tentazione del “ragionare con la pancia”; un 17,3% addebita invece alla NATO la colpa, il che potrebbe derivare da un tentativo di utilizzare una prospettiva geopolitica di più ampio respiro (ma forse dalla ideologia comunista per cui comunque l’America = Nato è sempre la cattiva della situazione); il restante 17,4% risponde con un “non so” che potrebbe significare indifferenza o disinteresse impotenza, ma forse anche che “questa domanda non mi consente di esprimere quello che davvero penso, perché è riduttiva e ipersemplificatrice” (ma è ciò che, se obbligato, avrei risposto personalmente).

Che la paura di essere travolti da questa guerra stia dietro la mentalità con cui la guardiamo traspare da altre domande della indagine. Ne riporto qui due:

  

Dunque desideriamo in fretta la pace (ma forse avremo una tregua e per decenni forse una sorta di nuova cortina di ferro o bipolarità conflittuale, solo che stavolta noi saremo sul confine più di prima), speriamo che qualcuno faccia fuori il cattivo, e comunque non dobbiamo assolutamente entrare in guerra.

Quindi sentiamoci buoni mandando aiuti, accogliendo esuli temporanei (purché non stiano qui troppo, come sta emergendo da altre indagini), soprattutto facendo manifestazioni e parlandone tanto tanto (parlare dei problemi ci dà la sensazione di affrontarli, un gioco psichico tipico della nostra specie). Ma di spegnere i condizionatori meglio non parlare. E intanto chiediamo all’Europa (per noi italiani una sorta di madre-matrigna, nel nostro immaginario collettivo: diversamene da francesi e tedeschi, che non hanno questa strana idea peraltro priva di riscontro nei trattati reali con cui nasce l’accordo europeo) .

Ora per favore non pensate che queste righe siano di un “tifoso di Putin” o filosovietico. Certo che no! Ma cerchiamo di uscire dai meccanismi ansiolitici della semplificazione: solo una mentalità aperta alla complessità, allo scenario ampio e storicamente radicato, all'elaborazione agile di ipotesi in evoluzione continua ci consentirà di navigare una transizione che già riguardava la società, la tecnologia, l’economia, la cultura organizzativa e le aziende, e ora ci accorgiamo coinvolgere (ma era già così, per chi sapeva guardare) l’evoluzione della geopolitica, l’equilibrio del potere. Già qualche anno fa gli scenari del centro di intelligence governativa USA prevedevano il declino del potere USA per la seconda metà di questo secolo, e già da anni sappiamo che Russia e Cina cercano di godere dell'economia globalizzata senza adottare i modelli di cultura liberal-capitalisti.

Il punto è: la guerra Ucraina segnerà la ancora forte capacità dell’America e della cultura occidentale moderna di dominare il mondo globalizzato, o prenderà definitiva forma il blocco Russia-Cina-India-Pakistan-Sudafrica-Brasile-Ungheria (Paesi che a oggi confermano e rafforzano affari e appoggio o neutralità verso la Russia) come una alternativa di potere (economico, militare, culturale) al “nostro” mondo ? E in questo scenario più che possibile come si troverà l’Italia? Che tipo di affari faremo, e in che condizioni di negoziazione? Cosa farà differenza nella produzione e nel valore aggiunto delle aziende italiane? Se non ci chiediamo queste cose stiamo accettando fatalisticamente di subire domani ancor più di oggi le decisioni di altri mentre cerchiamo disperatamente di mantenere quello che abbiamo adesso: una scelta possibile, forse anche intelligente. Ma forse un cambiamento sarebbe scelta migliore.

 

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Giovanni Siri

Professore ordinario di Psicologia Generale, ha insegnato presso la Cattolica di Milano, l’Università di Genova, l’Università IULM di Milano ed è stato docente all’interno del master Europeo di Comunicazione Aziendale presso Ca’ Foscari a Venezia e presso l’Università San Raffaele di Milano. Parallelamente agli impegni accademici, ha svolto attività di consulenza per la ricerca sul consumatore, la comunicazione di impresa, il branding, le analisi di trend e di scenario. Ha svolto attività di consulenza in Ferrero, Young & Rubicam, McCann Erickson, Renault, Parmalat, Soremartec, Branca, Mutti. Ha cooperato a lungo con Giampaolo Fabris, sia in ambito universitario che tramite la società GPF & Associati e ha diretto per circa due decenni un proprio istituto di ricerca sul consumatore. Si occupa attualmente di processi di cultural change in tutte le sue declinazioni, generazione di vision e valori negli scenari e megatrend dei prossimi anni. Adotta un approccio strutturato in cui anche i dati estensivi vengono considerati come sintomi da leggere alla luce di una ermeneutica qualitativa centrata sulla personalità, i desideri, le rappresentazioni socialmente condivise nell’immaginario collettivo, le categorizzazioni cognitive che organizzano l’Io. Tra i suoi libri “Sogni e Bisogni”, “La psiche del consumo”, “Cercare il futuro”. In uscita a settembre il suo nuovo libro "Cambiamente"

 

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