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Spunti di riflessione

 

Le top skill per il 2025

World Economic forum 2021: lo scenario del lavoro

Sia pure in modalità virtuale il congresso dei “manager dell’economia mondiale” sta svolgendo a Davos il suo “consiglio di amministrazione annuale”. Mentre l’ONU sembra scomparso dalla scena, il WEF agisce come una ben più attiva e presente “UN (United Nations) economica”, davvero internazionale e capace di allargare lo sguardo al pianeta e ai suoi abitanti andando ben oltre l’orizzonte tradizionalmente “economico”. Del resto l’economia ha riassorbito in sé politica, società, visione del mondo e dell’uomo: non è più una razionalizzazione del lavoro e del mercato, ma una “religione” omnicomprensiva.

Animate da questa prospettiva olistica e “teologica”, le riunioni del WEF si sono trasformate ormai da qualche anno in considerazioni e indicazioni al mondo sul da farsi (The Davos Agenda). E proprio perché la “visione del mondo” da cui muovono è di matrice economica, è decisamente interessante e sorprendente notare quanto questi summit si concentrino sempre meno sull’economia, per occuparsi sempre più del pianeta (sostenibilità), della società (ineguaglianza) e delle “aziende delle persone” (word-life integration, generation gap, skilling, welfare e wellbeing aziendale).

Buona parte di questo interesse “umanistico” dipende quasi sicuramente dai risvolti economici e di potere che le mutate condizioni ed esigenze sociali e personali stanno imponendo ai sistemi produttivo-finanziari da un lato e alla legittimazione del “corporate power” dall’altro. È quindi proprio il dilatarsi della sfera economica che sta obbligando a uscire dalla mentalità chiusa delle technicalities per entrare nel vivo delle persone, delle società, delle componenti che vanno ben oltre il mero calcolo razionale di produttività/guadagno. In buona sostanza è proprio il successo della religione economica ad imporre una sua mutazione: la visione del lavoro e del mercato come realtà socioculturale, psicologica, relazionale, affettiva e di significato più ampio e profondo riemerge e si afferma sul “lavoro a una dimensione” (caratterizzato dallo scambio negoziale domanda/offerta regolato dalla legge della vittoria del più forte).

Partendo da queste premesse e focalizzando l’attenzione sul tema del “lavoro” cosa sta dunque emergendo in questi giorni dai webinair di Davos 2021?
Beh, innanzitutto la drammaticità della situazione e la convinzione che il “COVID19 non finirà finché non finirà per tutti”:

"The photograph of global labor markets during 2020 is an ugly photograph," Ryder* said. Globally, 225 million jobs have been lost, and 81 million people have become inactive in the global labor force in the last year“ he said.
*Guy Ryder, Director-General, International Labour Organization (ILO);

L’impatto della digitalizzazione (quarta rivoluzione industriale, tecnologie 4.0) e del COVID, si sommano determinando un’accelerazione estrema delle condizioni di impiego e di lavoro. Ryder (come da tempo fa il WEF, del resto) indica la soluzione in una vasta azione di apprendimento:

How are we going to reach them with the skills acquisition that they, probably more than anybody badly need”? There has also been a disruption in education in the past year, Ryder said. While there has been a migration to online learning, it has been unevenly spread, he added. "We need to make a distinction between what we are doing today under the duress of living with COVID-19 and what we can choose to do when we have vanquished the pandemic," he said. It will depend on policy choices, he added.
"If we are imagining a world where digitally integrated ways of working are going to be more predominant than we have a wide bundle of issues to address," including skills and regulation, he said.

Non viene chiarito da Ryder, nel webinair di Davos 2021, come si possa mettere in atto questo decisivo e vasto programma di “skilling”. Probabilmente perché, in concreto, questo tipo di azione coinvolge troppo pesantemente una strutturale rivisitazione, non tanto delle skill delle persone ma soprattutto delle organizzazioni aziendali e del sistema educativo, chiamando in causa giochi di potere e competenze che richiedono un cambiamento di mentalità e di assetti. Come l’esperienza italiana insegna, neppure situazioni di “drammatica crisi” riescono a scardinare la forza delle abitudini e dei vantaggi di ruolo consolidati.
Molto più chiara ed esplicita è invece l’indicazione che il WEF dà sui contenuti specifici di queste skill indispensabili oggi per domani. Derivano da una ampia indagine internazionale svolta dal WEF nel 2020 e pubblicata in autunno.

Vorrei brevemente commentare come l’apparente fermezza di questa sintesi contenga però qualche oscurità di fondo e che dunque, non solo il modo di attivare lo skilling rimane ancora vago, ma anche sui contenuti rimane da chiarire la reale sostanza di queste indicazioni (peraltro ricorrenti anche in molte indagini).
Il fatto è che le “definizioni” di questi contenuti sono affidate al “senso comune” di chi struttura un questionario cui rispondono CEO, Manager ed HR, i quali sono ovviamente ancora del tutto dentro una visione ed un vocabolario “superato dai fatti e dalle necessità impellenti” di una trasformazione epocale nel mondo delle competenze e capacità di lavoro. È un po' come chiedere a insegnanti di ruolo sull’orlo della pensione, piuttosto che a studiosi e ricercatori di psicopedagogia giovani, quali competenze insegnare ai bambini d’oggi e uomini di domani… Occorre maggiore dialogo e scambio e umiltà reciproca, tra mondo aziendale e scienze sociali, tra azienda e accademia, tra implementazione pratica e ricerca. Una dialettica particolarmente assente in Italia, tra l’altro e maggiormente presente nei paesi scandinavi e in parte in USA.

 

wef

Vediamo dunque la “ricetta” che emerge.

Importante notare le aggregazioni proposte dagli estensori del report: quattro “type of skill” sono presentati:

1. Il tipo più numeroso è etichettato come area del “problem solving” e comprende ben la metà delle voci in elenco: Analytical Thinking and innovation, Complex problem-solving, Critical thinking and analysis, Creativity originality and iniziative, Reasoning problem solving and ideation. Un elenco che è davvero difficile, per uno studioso di processi cognitivi, metterlo nello stesso paniere: una eterogeneità degna dei governi italiani! Se dovessimo pensarle come qualità di uno stesso cervello saremmo dinnanzi ad un genio assoluto o ad uno schizoide irrecuperabile. Nella stessa pentola vengono messi processi euristico-empirici legati al concreto (analytical thinking) e attitudine a uno sguardo d’insieme gestaltico (Complex problem solving). Capacità innovative e ideative con capacità di ragionamento ordinato e di analisi. Pensiero critico (riflessivo) e creatività intuitiva… Forse non abbiamo ancora le idee chiare su cosa intendiamo con questi termini: e se chiedessimo aiuto alla ricerca psicologica (in tutte le sue varianti)? Ma no, loro sono troppo “accademici”… meglio andare avanti con pseudo-chiarezze apparentemente “operazionalizzabili”.

2. “Self Management” contiene due soli item: active learning and learning strategies e resilience stress tolerance and flexibility. Insomma vogliamo persone in grado di autovalutare il bisogno e il modo di apprendere continuamente e al tempo stesso capaci di resistere allo sforzo e all’incertezza delle situazioni (compreso magari il rischio di perdere il lavoro o di ammalarsi).

Qualsiasi studente di psicologia sa che

  1. queste capacità sono ipercomplesse e soprattutto che
  2. dipendono da equilibri di personalità e dal campo relazionale

In altre parole non ha senso considerarle come “capacità cognitive” a sé stanti o come attitudini: se vuole attivare queste attitudini l’azienda deve allargare lo sguardo alle persone, alle relazioni e al clima sociale aziendale. Ma la cultura industriale non è abituata a questo: la quarta rivoluzione industriale, lo si sta capendo solo ora, non può essere solo “industriale” (consiglio di leggere il libro di Rutger Bregman “Una nuova storia (non cinica) dell’umanità“). Non si può chiedere agli individui sforzi eroici e solitari senza rivedere il contesto organizzativo e culturale su cui è nato due secoli fa.

3. Sembrerebbe andare proprio in questa direzione la quarta area di skill proposta dalla ricetta WEF: “Working with people”, che comprende la sola voce “Leadership and social influence”. E già dal titolo si comprende come la prospettiva sia ancora nella tradizione: l’azienda non viene considerata nella sua valenza di società di persone e insieme dinamico di relazioni e appartenenze, né come un “campo organizzativo delle persone”. Rimane il “branco” da guidare e governare, solo con maggiore consapevolezza e con modi meno rigidi di comunicazione. In definitiva ci si ostina a permanere nell’ottica dell’efficacia persuasiva tipica della asimmetria tra manager (persona “superiore”) e “dipendenti” (non a caso detti anche “inferiori” nel mansionario militaresco classico).

4. Infine la quarta area “Technology use and development” sembrebbe indicare delle ovvie necessità: “technology use monitoring and control” e “Technology use and programming”. Certo, si tratta di implementare, sviluppare, controllare la tecnologia… cosa di più ovvio? Peccato che nessuno abbia ancora risposto alla questione fondamentale in proposito: perché va così a rilento il passaggio alle risorse del 4.0, che sembrerebbero moltiplicare il potenziale produttivo? Al di là delle certamente esistenti e concrete difficoltà attuali e dei rischi di creare disoccupazione e agitazione sociale, il fatto cruciale sta nella impossibilità di usare davvero gli “automatismi intelligenti” del digitale senza rivedere la cultura organizzativa su cui l’azienda è nata e su cui ha fondato il suo successo, che oggi però è una camicia di forza. Senza contare, inoltre, le difficoltà dell’educare le persone a interagire (ma sarebbe più adeguato dire “comunicare”) con le realtà digitali. Perché se ad esse possiamo delegare l’intelligenza, a noi umani rimane la capacità di essere orientati a scopi e fini, attraverso una capacità generativa che solo noi abbiamo. Ma queste dimensioni sono state tenute accuratamente fuori dall’azienda, come disturbatori inutili e disturbanti l’efficienza aziendale.

Tutto ciò almeno fino a ieri sera. Oggi però parliamo di creatività, resilienza, relazione, emotività, empatia… ne parliamo, sì, ma ancora non sappiamo come attivarla in azienda. E non lo sappiamo perché, in definitiva, tutte queste skill non possono essere acquisite senza una diversa acculturazione. Prima di reskilling, abbiamo bisogno di rieducazione.