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Spunti di riflessione

 

Confondere il desiderare con il volere, il nostro rischio profondo

A cura di G.Siri

In questa Europa, giardino di un benessere ottenuto in due secoli di quella “modernità occidentale” nata dalla rivoluzione industriale nell’800, stiamo subendo un brusco (ma da tempo inscritto nella forza delle cose) risveglio. Per ora, piuttosto di tirarci fuori dal nostro comodo letto, stiamo cercando di scacciare il disturbatore del nostro sogno (figlio di un sonno cieco agli eventi che stanno facendo il loro corso “logico”) urlandogli di andare via, di lasciarci tranquilli, e non sembra che questa strategia funzioni.

Immaginavamo di avere domato il mondo con la tecnica e la civilizzazione capitalistico-liberal-tecnologica, pensavamo di avere piegato la natura asservendola al desiderio illimitato di abbondanza di beni (mediaticamente definita “crescita”), scoprendo adesso (troppo tardi?) che il nostro saccheggio ci si rivolta contro regalandoci una climate crisis fuori ormai dalla nostra portata.
Eravamo convinti di avere trovato la chiave di una felice convivenza sociale con il modello americano, e presto non ci sarà più possibile ignorare la marea montante delle diseguaglianze planetarie e dell’invidia sociale che erode anche le ricche nazioni occidentali.
Siamo umiliati da microscopici virus che pretendono di vivere a spese delle nostre vite, e reagiamo cercando di negare il fenomeno fino al punto da pretendere che non ci sia bisogno di vaccini.
Parliamo di globalizzazione ma di fatto intendiamo dire che il resto del mondo deve mantenere i nostri privilegi, senza disturbarci o venire qui a pretendere le briciole che cadono dalle nostre mense: con gli scarti delle nostre tavole potremmo nutrire coloro che ogni muoiono di fame e di malattie curabili con una frazione ridicola delle nostre ricchezze (Afganistan: 2313 miliardi di euro di spese militari in dieci anni, per tornare malamente al punto di partenza).
Coltiviamo da anni, assieme al consumismo, il mito della eterna giovinezza, ma i nostri giovani appaiono demotivati e privi di progetto e rifuggono da un lavoro che non ha a che fare con le loro vite rifugiandosi ancora nel consumismo e nelle dipendenze.
Il mito della felicità edonista sembra produrre sempre maggiori disturbi mentali e sindromi ansiose (lo dicono i dati OMS, non chi scrive).

Adesso lo spettro della guerra, che abbiamo ignorato finché non ci riguardava da vicino (noi europei, intendo), si aggira concretamente tra noi, minacciando quanto meno una “ripresa” che insistiamo a desiderare come ritorno allo stato di beato benessere precedente. Ci svegliamo scoprendo che l’impero americano ci mette alla frusta perché le mamme americane non vogliono più che i loro figli muoiano in giro per il mondo per conto nostro. Il popolo americano (che ha un tenore di vita medio decisamente inferiore a quello degli europei) vuole godersi il potere e il benessere conquistato a suon di guerre e di superiorità economica e tecnologica, esige il pagamento del debito dai suoi beati servi europei: vuole essere l’Europa che noi siamo stati a spese altrui da 70 anni.

Un’Europa ricca e viziata, ma senza materie prime, senza esercito, senza monopoli tecnologici (che la Cina ha invece saputo realizzare). Ma soprattutto un’Europa post-storica, incapace di qualsiasi progetto se non quello di difendere lo status quo e la sua qualità di vita (materiale, perché quanto a felicità e pienezza esistenziale non siamo messi bene). Priva di reale partecipazione dei cittadini (impegnati nel loro “privato” evasivo ed edonista), priva di reali opportunità stimolanti per i giovani, ancorata a istituzioni ormai separate dalla realtà e contenitore di caste ancor più privilegiate di quanto tutti noi siamo stati fin qui.

Non si tratta di un quadro pessimista ma di mera fenomenologia (presa d’atto della realtà): e non è evocato per deprimerci ma per orientare lo sguardo alla speranza. Speranza che scendiamo infine dal nostro comodo letto, che la smettiamo di guidare la nostra vita quotidiana guardando nostalgicamente nello specchietto retrovisore per affrontare il presente e così riuscire intelligentemente (ovvero realisticamente, non solo berciando a favore dei nostri desideri sui media, social, manifestazioni retoriche varie e stracciandoci le vesti per ricomprare subito capi alla moda) a progettare un futuro. Nella nostra storia abbiamo il DNA per farlo, e forse - come accade nell’evoluzione naturale - la dura realtà ci richiamerà all’ordine riportando alla luce le potenzialità di una civiltà (europea) che dopo avere inventato il progresso materiale può ora cercare di ampliarne il senso includendo in esso la crescita intellettuale e la dimensione di quelle relazioni sociali specificamente umane da cui nascono fiducia e immaginazione produttiva.

In passato, almeno in scala ridotta, l’Europa ne è stata capace:  l’Italia, che esprime la crisi dell’Europa nel modo più acuto (e ne pagherà quindi il conto per prima), in questo ha cromosomi adeguati. Ma prima bisogna svegliarci, scendere dal divano, usare i desideri non per evadere la realtà ma per immaginarne una ancora più ricca, e non solo di denaro.

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