Competenze in scadenza?
Il 59% degli italiani ha bisogno di una riqualificazione professionale
Da una recente ricerca del Sole 24 ore emerge che l’Italia ha quasi 13 milioni di adulti con un livello di istruzione basso, il 39% del totale dei 25-64enni (intorno ai 33 milioni di individui); si sale addirittura a più di un adulto su due (la stima oscilla tra il 53-59% dei 25-64enni) «potenzialmente bisognoso di riqualificazione» per via di competenze “obsolete”, o che a breve lo diventeranno, a causa dell’innovazione e del cambiamento tecnologico in atto nel mondo del lavoro, oppure perché, nonostante la laurea, possiedono scarse capacità digitali, di alfabetizzazione e di calcolo.
Eppure, è questo il paradosso, si formano molto poco: in Italia, infatti, nonostante qualche progresso negli ultimi anni, la quota di adulti che partecipa ad attività di istruzione e di formazione è tra le più basse a livello internazionale: ci si attesta a un modestissimo 24% contro il 52% della media Ocse (indagini Piaac), e riguarda in netta prevalenza gli occupati (81%), che dichiarano di svolgere la formazione essenzialmente per motivi legati al miglioramento della carriera; di seguire corsi fuori dall’orario di lavoro, se si tratta di apprendimenti formali, o all’interno del proprio ufficio, per gli apprendimenti non formali.
Non solo. I circa 13 milioni di adulti italiani con basso livello di istruzione rappresentano circa il 20% della popolazione adulta europea con un basso livello di istruzione (circa 66 milioni di individui totali).
Analisi delle cause
I dati fin qui elencati denunciano un’ insieme di cause, che possono essere ricondotte a più fattori connessi però a una ragione di matrice essenzialmente culturale: in Italia manca oramai del tutto la cultura dell’apprendimento continuo, quella tipicamente rinascimentale dell’impara l’arte e mettila da parte, la cultura di una formazione che non si interrompa bruscamente con il conseguimento del pezzo di carta, ma che proprio a partire da esso possa continuare poi nel mondo del lavoro, sia attraverso le aziende che privatamente.
Una pigrizia intellettuale e una forma di accidia che però hanno un’origine comune nella (dis-)educazione familiare, scolastica e accademica. Lo studio e l’approfondimento vengono trasmessi ai giovani non più come un’opportunità per crescere attraverso la riflessione, ma come uno strumento neutrale, attraverso cui poi magari si troverà il posto giusto, meglio ancora se fisso e sicuro. Una famiglia che ha spezzato il patto virtuoso con l’Istituzione scolastica, ove la delega fiduciaria d’un tempo è stata soppiantata dalla presunzione di conoscere il vero bene dei propri figli anche in un campo non necessariamente consono alla genitorialità.
La scuola a sua volta, sempre più digitalizzata e spersonalizzata, ha ratificato con riforme ove la didattica ha ormai soverchiato la pedagogia, un pensiero soprattutto funzionale, operativo, contabile ma astratto dalla concretezza del lavoro e dalla stessa natura riflessiva insita nella persona.
Lo studente non deve più imparare a saper pensare, ma anzitutto dovrà saper fare, non dovrà detenere il senso delle cose, ma il loro utilizzo strumentale.
Una forma didattica che se da un lato iperspecializza, dall’altro deprime ogni apertura al contesto e alla realtà nel suo insieme. Il liceo per esempio che fino a qualche tempo fa rappresentava l’ultimo baluardo di una cura al pensiero riflessivo, sistemico e aperto, oggi si è trasformato in una batteria per polli di allevamento da introdurre poi con i loro 100 e lode nelle facoltà universitarie (dove il pensar comune) induce alla certezza di una professione ben retribuita di taglio ingegneristico, medico, finanziario.
Ecchisenefrega se magari quella ragazza o quel ragazzo avrebbero voluto “perdersi” in lettere antiche o in filosofia, inventandoselo magari in seguito il lavoro, perché se è certo che non esistono facoltà deboli(un po' tutte lo sono dopo il ’68) , esiste invece un pensiero debole, che non valorizza più la passione competente, ma solo la competenza parziale e specialistica.
E qui cade l’asino (appunto dato il tema). Studenti che si iscrivono spesso in luoghi ove non si studia più per conoscere o per approfondire, ma in cui si viene preparati esclusivamente per superare l’esame, affinchè poi il ranking di quell’Ateneo non risulti a bilancio negativo sia in termini di iscrizioni, che di laureati appena sfornati. Il motto liberista applicato alla cultura: laissez-faire, laissez-passer, laissez-travailler…
Il pezzo di carta (triennale è meglio), i parenti festanti, l’alloro in testa, l’happy hour con gli amici e tutti pronti a lavorare, che in Italia, vedi i dati sopra vuol dire: ho finito di studiare per sempre.
Ecco dunque riversarsi nelle aziende fantastici neoassunti proteiformi produttori di fogli excel, ipervitaminizzati di certificazioni linguistiche ad alto costo, ma di bassa resa e campioni imbattuti di presentazioni in powerpoint.
Le Aziende poi, anziché preoccuparsi di creare per il loro stesso mantenimento, non dico per il caro vecchio tendere al bene comune, una potente cultura di continuo apprendimento, una battaglia culturale interna ed esterna per generare un pensiero forte, considerano la formazione come un di cui da utilizzare se avanzano soldi e se ne avanzano, solo per quelli non meglio definiti come talenti, parola in fondo discriminatoria ed escludente tutti gli altri.
Tra le cause matrici di questo esubero di incompetenza non possiamo del tutto escludere le società di formazione sia pubbliche che private.
Le prime non hanno mai attuato la visione profonda che nasceva dal riflettere Olivettiano sulla superiorità del formare su l’informare, generando così i famosi corsi aggiornamento professionale, una formazione più simile all’addestramento che all’insegnamento, la persona trattata come un’App da aggiornare e nulla più.
Le seconde, utilizzate spesso come estensione del dominio di manipolazione delle aziende sul dipendente, hanno abdicato al riflettere e hanno spostato tutto sul “fare”. Giochi di ruolo, percorsi di guerra, Lego, cooking experience, escape room senza un briciolo di pensiero critico da far emergere e far diventare dialogo, confronto.
Tutto ridotto a gioco, festa, tanto poi tornati in ufficio nulla sarà cambiato e anzi se il collega mi sta sulle scatole nella quotidianità, adesso che ho scoperto che sa pure fare il tiramisù lo odierò definitivamente.
Alla ricerca continua di cultura, pensiero e competenza si è sostituita una volontà di potenza che non tende più alla crescita delle persone, ma allo sviluppo progressivo e puramente quantitativo del businnes attraverso le stesse persone, usate come carburante per un progredire illimitato e indefinito e non come inizio e fine di un progetto.
La relazione è diventata prestazione e il soggetto è ridotto a progetto. Il rischio è l’implosione. La certezza è l’ignoranza.
Ipotesi di soluzione
Dopo centinaia di giornate in aula sono sempre più convinto che l’ambito della formazione manageriale o al lavoro sia molto simile a quello educativo, se preso sul serio e vissuto intensamente e consapevolmente.
In aula come un tempo a scuola o in bottega, l’apprendimento di competenze non è solo un’intuizione intellettuale o un’astrazione, non è un’interpretazione, non è una catarsi, ma è invece un incontro profondo e autentico tra persone attraverso il medium di una specifica materia.
Il formatore e il manager nel contesto aziendale odierno hanno due scelte: limitarsi a fornire strumenti o ingaggiare una lotta con la libera responsabilità del lavoratore, intervenendo sulla persona intera e non solo su brani di essa, in un percorso di apprendimento a tempo costante e indeterminato.
Nel corso della mia pratica professionale mi sforzo sempre di avere un incontro autentico con i partecipanti, tendo ad essere attivo, provocatorio, personalmente coinvolto e spero anche coinvolgente, concentrandomi sul “qui e ora” della relazione. Lavoro sul processo e sulle dinamiche adoperando la relazione come “cura”, la riflessione sulla realtà come medicina.
Sento la necessità di non cadere nella trappola socratica del “se conosco il male lo evito” da cui poi fare conseguire il virtuoso opposto: “farò quindi sempre il bene che conosco”. Non tutto è lineare quando si ha a che fare con la libertà della persona, non basta la cassetta degli attrezzi e una mappa per fare crescere qualcuno.
Si tratta di un processo educativo e profondo in cui è talora necessario lasciare alle persone la responsabilità, anche di sbagliare, evitando così di ridurre ancora una volta la formazione a fornitura perpetua di strumenti adeguati a tutte le circostanze.
Attrezzi dozzinali che essa ha prodotto, venduto ed erogato in quantità industriale.
Parliamoci chiaro, se tale “offerta formativa” avesse funzionato davvero, ci sarebbe da chiedersi perché dopo trent’anni di corsi (ad esempio) sul time management o sulla comunicazione efficace nelle aziende prevalga ancora inefficienza nel rapporto con il tempo e perversione della comunicazione, fino a giungere a soglie patologiche di incomunicabilità tra le persone.
Dare gli strumenti può essere si utile, ma essi vanno con sano realismo, ridimensionati e introdotti al tema del senso primo e ultimo del loro utilizzo.
Passare dallo strumentalismo al senso, dalla cassetta degli attrezzi al significato del lavorare è la chiave di volta per edificare qualcosa in questo contesto ondivago e discontinuo ove dati alla mano ignoranza, incompetenza, impreparazione a tutti i livelli, paiono avere l’ultima parola nel nostro Paese.
La nascita di realtà imprenditoriali, formative, associative che inizino a proporre un radicale intervento culturale sulla responsabilità individuale sia sul posto di lavoro che nella società in generale, è un’evoluzione auspicabile di un pensiero forte che i nostri Padri nel secondo dopoguerra hanno concretizzato e patrimonializzato.
I risultati quotidiani sia in termini di crescita umana e professionale che di benessere aziendale, inizieranno ad esserne preziosa testimonianza.