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Davos 2022 - cosa ha da dirci il World Economic Forum

Un quadro strategico per i prossimi anni a cura di Giovanni Siri

È curioso, ma forse non casuale, come gli appuntamenti di Davos siano sottovalutati dai mass media e di quanto poco se ne parli. Eppure lì si riunisce e converge su un quadro strategico e linee di azione condivise la “crema” dei poteri reali del mondo produttivo, economico, finanziario, politico.

I punti fermi dal passato

Proprio da Davos vengono già da qualche tempo due “warning messages” importanti. Il primo, sorprendente visto il WEF, nasce attorno all’idea del passaggio alla quarta rivoluzione industriale attraverso le tecnologie 4.0 e prende atto del fatto che per la quarta rivoluzione industriale non è la tecnologia ma la crescita “umana” di competenze ma anche di soft skills (capacità specificamente umane, potenziali e talenti da sviluppare).

Da qui il boom della formazione centrata sulle soft skills, il tema dell’empatia e della relazione, il lavoro di team e la leadership “gentile” e cose simili. Il secondo è l’esplicita dichiarazione che il progresso tecnico e il boom economico (che perdura per i “giganti” anche nelle varie crisi, inclusa quella Covid) non potrà garantire che le cose continuino così se non si metterà mano al problema sociale della ineguaglianza, un vulcano che può esploderci in faccia, come dichiarato quasi letteralmente tre anni fa. Da qui i movimenti che vanno sotto il tema “rethinking capitalism”: il capitalismo liberaldemocratico (in partnership con l’evoluzione tecnologica) ha dimostrato di essere il miglior sistema per far “progredire” il benessere di tutti ma, se non lo correggiamo, le disuguaglianze che produce lo sotterreranno e quindi occorre riformarlo (peccato che non si riesca neppure a stabilire una fiscalità adeguata, in nessun paese del mondo).

E cosa ha da dirci oggi, Davos 2022?

Ci presenta un ulteriore importante messaggio, vediamo quale. Con la pandemia Davos ci ha detto che occorre “resilienza” e dunque agilità, flessibilità: innanzitutto da parte dei dipendenti (che devono sentire l’azienda come se fossero anche loro imprenditori, avere “imprenditorialità”), ma poi anche i manager che devono saper motivare ascoltare e supportare i dipendenti (si noti come il livello di stress dei manager sta affiorando oggi in tutta la sua estensione) e infine forse occorre ripensare anche alla cultura organizzativa, all’equilibrio vita-lavoro, al fenomeno delle nuove generazioni che non accettano un lavoro “dipendente” nel senso classico…Peccato non si dica chi mai dovrà occuparsi di questo ultimo punto, che come si capisce è quello davvero concreto.

L’anno scorso si è fatto un passo avanti, evolvendo dall’esortazione al “reskilling” ad un più profondo “rethinking”: ma quest’anno “2022” emerge qualcosa di più decisivo e al tempo stesso di più vago. Infatti il claim di quest’anno riguarda la necessità di una nuova “grande narrativa”. In sostanza uno scenario che rilanci il senso complessivo dell’impresa, dell’economia, del progetto occidentale di società e di felicità. Il discorso (video) di Xi Jinping traccia paradossalmente la rotta: siamo tutti nella stessa barca (il pianeta terra) e tutti assieme dobbiamo prenderci cura di lui se non vogliamo lasciarci tutti le penne. Insomma un coinvolgimento generale sulla base della paura e dell’amore per la madre terra dovrebbe essere la cornice entro cui sistemare, forse superare, i gravi problemi sociali ed esistenziali in cui stiamo impantanati.

La nuova narrazione

In questa idea della nuova grande narrazione (“the great narrative”) c’è del buono e del meno chiaro. Di buono c’è che passare dal reskilling al rethinking e alla new great narrative è un segnale che chiarisce che non basta più mettere pezze parziali ma bisogna ripensare il tutto (rileggetevi un bel saggio pubblicato da McKinsey nel 2020 su “The social contract in the 21est century” che anticipava il tema). Va ripensata l’economia e la società, il rapporto con le tecnologie, va ascoltato il punto di vista delle nuove generazioni e del resto del mondo. Ci vuole una nuova sintesi, quella del “progresso”: come concepita nell’800 e che ci ha guidati fin qui (con grandi benefici che nessuno vuole buttare via) non regge più. Ma qui sta la parte debole: a chi tocca farlo? Come covare questa nuova schiusura in un mondo e in occidente, diviso a tutti i livelli? Come realizzare una visione globale in un mondo di azioni e culture in conflitto multilaterale? Come chiamare a questo “salto” popolazioni tenute democraticamente nella condizione di dipendenza e manipolazione mediatica? Come chiedere responsabilità a persone che da tempo non partecipano più alle decisioni e in cui i giovani hanno un distacco grave dalle istituzioni e dalla politica? Dove trovare un pensiero largo e profondo sistemico, avendo coltivato le specializzazioni e irriso filosofi e artisti?

Ecco, le intenzioni sono buone e il problema reale: ma il successo di ciò che oggi vogliamo cambiare ci ha tolto le radici di questo albero i cui frutti oggi si comprende quanto servirebbero. Eppure, solo i potenti di Davos si accorgono del problema, nel silenzio chiassoso di cultura, istituzioni, media e di tutti noi che ci preoccupiamo di tornare presto a poter viaggiare e godere il tempo libero come prima, quando dovremmo preoccuparci di non pensare più, di non desiderare più, di non agire più “come prima”. Si preannunciano, dietro l’apparente retorica della nuova “great narrative”, tempi complessi e interessanti.

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