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Spunti di riflessione

 

Funzioni, persone o individui

Il trilemma della cultura organizzativa

In principio furono le funzioni, i processi, ovvero le “cose” e le “azioni materiali”, del resto la fabbrica si inventa nell’800 e come modelli organizzativi può ispirarsi solo all’esercito, alla chiesa, al monastero o al castello.

acIl XIX° diventa il secolo materialista e razionalista concependo la organizzazione produttiva in analogia ad una macchina meccanica ossia un insieme di ingranaggi e leve che in un flusso di causalità lineare alimentano la sequenza produttiva fissa. Così la fabbrica nasce come un contenitore ben articolato in funzioni e processi, in cui il ruolo degli umani è analogo a quello di robot efficienti e obbedienti, passivi. Del resto per i molti poveri e quasi servi della gleba lavorare in una fabbrica non appariva disumano: i benefici c’erano e non era ancora sorta la pretesa di una “qualità della vita” che proprio il benessere dell’industrializzazione ha consentito di acquisire.

Avventurandosi nel ‘900, grazie all’accrescersi del benessere e della diffusione della cultura ma anche a causa della concorrenza che si andava infittendo, ci si dovette accorgere che i dipendenti producevano di più se avevano adeguata motivazione. Fosse quella del mero incentivo salariale o quello della carriera o quello dei benefici secondari, di fatto la motivazione cominciò a diventare un tema rilevante per la funzionalità e competitività dell’impresa. La nascita dell’economia dei servizi e la nuova centralità di comunicazione e marketing accelerò lo spostamento del focus della cultura organizzativa dalle funzioni “anonime” all’importanza degli individui, intesi qui come singoli animati da desiderio di carriera e di ascesa sociale, interessati a competere con i colleghi per scalare la piramide aziendale, mossi da bisogno di ricchezza. Da qui la filosofia degli incentivi, del piano di carriera, e infine del manager cui vengono concesse shares importanti. Questa visione darwiniana-capitalista dell’individuo-lavoratore resistette (e resiste in gran parte tutt’ora) alla evidenza, che oltre le tendenze egoiste e competitive, esistono altre dinamiche: il bisogno di appartenere e di fare squadra, e che relazione, empatia, comunicazione e bisogno di credere in quello che si fa’ (insieme) per esempio. Benché sia dimostrato che è il making sense e il lavoro in team a dare i migliori frutti anche produttivi, fin qui queste dimensioni non sono divenuti il perno di una diversa visione organizzativa.

La visione rimane ancora largamente meccanico-individualista-egoista, con qualche spruzzata di formazione alle soft-skills e al team building.

E mentre ancora la cultura organizzativa fatica a passare dall’individualismo auto-assertivo alla socialità relazionale di un gruppo di scopo, che vede nel lavoro qualcosa di più della fatica di sopravvivere o del gioco a chi sale più in alto, lo scorrere del tempo (con in più l’accelerazione imposta dall’esperienza pandemica) ha già imposto un ulteriore spostamento di prospettiva. Le nuove generazioni non sono più figlie dell’individualismo: sono sì consapevoli di sé ma non nel senso di affermazione di una propria “potenza”. Il loro narcisismo non è più esibizionista ed espansivo, anzi piuttosto introvertito ed emotivo, percorso da incertezza e insicurezza (e già ben prima del COVID19), se non da disperazione e disorientamento.

Immaturità, infantilismo, capriccio di chi deve ancora confrontarsi con la dura realtà e permane bambino grazie ai vizi che i genitori, lavorando duramente, gli possono permettere. Per mio conto, ragionando da ricercatore e non solo da soggetto senziente che prende il proprio sentire come criterio di realtà e verità, mi sento di azzardare che questa chiave di lettura non è realistica. Ci sono buoni motivi per interpretare questo atteggiamento esistenziale come sintomo del passaggio dalla centralità della visione di sé come “individui” che devono affermare sé stessi alla visione di sé come “persona”.

“Persona” è molto diverso da “Individuo”. Mentre quest’ultimo ha una identità forte e un desiderio di conquistare riconoscimento alle proprie competenze e doti, la persona non ha una identità né un chiaro progetto su di sé. La persona è un sistema aperto dischiuso e non ancora conchiuso, e concepisce sé stesso come un grumo di potenzialità che possono germogliare solo nella interazione con gli altri che fanno del “noi” la cova di un “tu” da cui nasce il mio essere “io”. Quando nel contesto aziendale si parla di “neo-umanesimo” si intende ancora oggi una visione ispirata all’io-monade alla ricerca di imporsi all’attenzione e di successo. Bisognerà iniziare a parlare di “personalismo”, ovvero dell’azienda come di un contesto di cova del potenziale delle persone, che si può attivare e trovare le sue vie di crescita (gli individui hanno successo, le persone hanno crescita) solo in un contesto relazionale di appartenenza e di progetto credibile. Si sfiora il tema quando si parla di “talenti”, ma questo termine oggi molto utilizzato è ancora confusivo invece che chiarificatore: si sovrappone largamente a capacità e competenze.

E’ sintomatico quindi, ed è un buon segno, che si parli molto oggi, nella formazione del management, di empatia, soft skills, making sense, team building e così via. Ma siamo ancora al tentativo di mettere delle pezze a un progetto tutt’ora prevalentemente meccanico-individualista.

Se l’organizzazione deve diventare (e lo deve, se vuole sopravvivere alla globalizzazione, all’evoluzione sociale e alla quarta rivoluzione industriale) anche organizzazione del suo lato sociale, deve diventare capace di organizzare le persone. E non basteranno i begli slogan come “le persone al centro” o “persone oltre le cose”: non a caso due slogan della persuasione all’acquisto, vuoi commerciale vuoi politico.

Le Imprese devono invece fare meglio di così, perché devono confrontarsi con una realtà in formidabile transizione.

Giovanni Siri