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Spunti di riflessione

 

Oltre il Nuraghe

Nel luglio del 2017 compare sulla Deloitte Review un articolo dall’espressivo titolo  “Beyond office walls and balance sheets: Culture and the alternative workforce”. 

Nell’articolo vengono efficacemente e sinteticamente evidenziati due punti chiave della transizione in cui si trova la dimensione del “lavoro” in senso lato, alla cui positiva risoluzione l’attività formativa è chiamata attivamente a contribuire con un ruolo da protagonista.

Il primo punto concerne la “caduta dei confini” entro cui - sia fisicamente sia dal punto di vista del marketing, dell’organizzazione, della ricerca e sviluppo e della competitività - l’impresa di eri (e per molta parte ancora di oggi) ritagliava la propria realtà e definiva le proprie regole. La materialità delle “materie prime”, dei “macchinari”, della “forza lavoro” costituiva il “capitale complessivo” da custodire nella “fabbrica-castello”, da cui muovere alla conquista di territori-clienti e per sconfiggere i nemici-competitors. 

>E’ormai evidente che questa mentalità, antico lascito di una cultura rurale-feudale, non quadra più con la realtà che viviamo, e sempre meno lo potrà fare con l’avanzarsi della quarta rivoluzione industriale. L’intreccio tra globalizzazione (di scambi e commerci, di idee, di collaborazione complementare), di innovazione tecnologica (AI, robotica, big data, logistica, blockchain, stampanti 3D e mobilità), e nuovi bisogni e desideri (di clienti, consumatori, lavoratori delle generazioni Y e Z): questo intreccio richiede non solo l’agilità di cui tanto si parla ora ma anche la fine dei confini.

Il capitale invisibile dell’impresa prevarrà su quello materiale, e sarà fatto di idee (come dice uno slogan di Deutsche Bank, che normalmente non brilla per capacità di sognare), di creatività, di alleanze polimorfe più che di competizione hard, di esternalizzazione: tutte dimensioni che vivono solo senza i confini “contenitivi” del nuraghe. 

Questo vale anche per le PMI legate a un territorio: il territorio non va inteso come delimitazione del raggio di pensiero e di interazione ma come radice che consente di alimentare l’appartenenza ad una comunità reale sfuggendo all'astrattezza del lavorare solo per il profitto finanziario. Del resto i territori da un lato possono non essere solo “geografici” ma socioculturali (si può appartenere ad una comunità che fisicamente risiede in diverse nazioni o culture), e d’altro lato anche i territori geografici oggi pretendono di interagire attivamente con il mondo, a non essere più “provinciali” nel senso difensivo del termine.

La perdita dei confini ha però un delicatissimo risvolto, particolarmente drammatico nel mezzo del guado: l’incertezza, l’insicurezza, la paura, l’indecisione. In una parola: la paura. Non a caso dunque il secondo punto chiave dell’illuminante articolo della Deloitte Review è dedicato alla cultura. 

Cosa ci consente di transitare dalla sicurezza delle protettive mura perimetrali e di un mondo del lavoro “organizzato, normato e prevedibile” verso l’incertezza di uno sconosciuto mare aperto?

La risposta che emerge ormai da molte analisi ed esperienze e ribadita nell’articolo in questione è: la cultura

Per dare senso e prospettiva, progetto, ad una navigazione verso terre sconosciute, e che per giunta rischiano di rimanere tali e dunque largamente imprevedibili (sull'imprevedibilità strutturale occorrerebbe una parentesi troppo lunga per aprirla qui), occorre una nuova cultura. Una cultura capace di rispondere sinergicamente alla prospettiva dell’imprenditore e del manager, della “forza lavoro”, dei clienti-consumatori e della società. 

Come recita il titolo di una sezione dell’articolo “The more things change, the more culture matters”. E’ la cultura, in questo caso cultura d'Impresa e del lavoro, a dare senso, orizzonte, visione e quindi a fornire una bussola e una mappa per muoversi nel mondo nuovo che sorge. E’ la cultura a fornire a chi lavora (a tutti i livelli) il perché e poi il come del loro agire, e ad ispirare le nuove organizzazioni del senso e del consenso. E poiché le mura fisiche, i contenitori materiali e normativi, non esisteranno più, la cultura dovrà essere fortemente condivisa e interiormente assimilata, fatta propria. La fede nella loro missione storica si rafforzò nel disperso popolo di Israele proprio dopo le disastrose conquiste del territorio fisico da parte degli imperi orientali e la conseguente diaspora degli ebrei. 

Si tratterà, ma già si tratta, di una cultura che dovrà dare senso ad almeno tre grandi mutamenti che ci fanno oggi inevitabilmente paura suscitando l’inevitabile quanto inutile resistenza al cambiamento.

Per prima cosa dovrà cambiare la mentalità centrata sul controllo e la pianificazione che ha dominato il mondo dell'impresa nell’era delle rivoluzioni industriali. Per favorire una forma mentis aperta all’incertezza, alla possibilità ipotetica, alla interpretazione di scenario flessibile e veloce a mutare lo schema. 

In secondo luogo occorre comprendere che questa “cultura cognitiva” può essere resa possibile solo da una sicurezza emotiva. Quindi occorrerà concepire l'esperienza del lavoro come un'esperienza che dia sul versante interno la possibilità di esperire il lavoro (o comunque lo si chiamerà di qui a poco) come arricchimento di sé e del proprio potenziale prima che come strumento di sopravvivenza, di carriera o di benessere materiale e sociale. E che sul versante esterno crei un clima e una cultura relazionale generativa, interattiva e amicale. I problemi dell’engagement su cui oggi tanto si insiste nascono dalla incapacità di rispondere a queste due esigenze così forti nelle generazioni Y e Z.

In terzo luogo occorre una cultura capace di rafforza l'identità d'impresa basandola sull’immateriale (idee, visione, progetto, affetti) in modo da consentire un continuo sviluppo di relazioni, di partnership, di interazioni a progetto, di team multi-aziendali e con altre parti della società (le università, i clienti, i consumatori, le istituzioni…). Convergendo nella positività di progetti motivati oltre il “guadagno” ed abbandonando le metafore darwiniano-militari della lotta, competizione, conquista e dominio per passare a una visione di interazione, integrazione, complementarietà, mobilità e agilità aperta alle contaminazioni e alle alleanze di progetto.

Non si tratta ovviamente di cose da poco, né facili: ma indispensabili, ormai. 

Le attività di formazione sono chiamate a dare man forte, uscendo anche loro dal chiuso delle competenze per aprirsi alle capacità per aiutare a evolvere dal saper fare al saper essere, per mostrare come la strada maestra sta nella capacità di liberare il potenziale di una mentalità generativa che sviluppa e ingloba quella di performance e di controllo fin qui dominante (e con successo, ma oggi più ostacolo che risorsa). Un compito che richiede alla dimensione formativa un'evoluzione culturale forse ancor più radicale di quella richiesta alle imprese e al lavoro. Ma foriera di potenzialità belle e grandi: se sapremo gestire la paura di affrontare la nuova realtà che ci sospinge a crescere e a sviluppare talenti fin qui solo marginalmente utilizzati.

                                                                                                                      Giovanni Siri