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Spunti di riflessione

 

Oltre la People Analytics, verso lo Human Metrics

A cura del Prof. G. Siri

La people analytics è una strana presenza nelle aziende, dalla natura e dalle funzioni non sempre univoche. Arriva nelle aziende spesso assieme al SAP®, strumento di successo per la gestione degli aspetti organizzativi hard e di quelli economici, ma soprattutto espressione della logica organizzativa di tipo burocratico (senza attribuire in questo caso nessuna connotazione negativa a questo termine, usato qui solo come definizione tecnica) e della forte spinta a razionalizzare e controllare ogni aspetto dell'impresa. L’impresa moderna ha un’anima visionaria e un corpo fatto di organizzazione, e secondo la prospettiva della modernità questo corpo deve essere monitorato e gestito il più razionalmente (cioè: con la maggiore efficienza) possibile. Da qui l’esigenza di misurare e di elaborare leggi statistiche in grado di consentire la programmazione (che è l’intelligenza operativa della azienda). Tutto questo è positivo, produttivo.

Almeno finché non si cerca di estendere la misurazione al “fattore umano” dell’azienda, ovvero alle sue dimensioni psico-sociali. L’HR si avvale da tempo di database e poi di analytics, almeno per quanto concerne i dati comportamentali, dalle assenze dal lavoro fino alla efficienza della prestazione (variabile già meno facile da misurare): in ogni caso utilizzando il criterio finale della efficienza per l’azienda, dal margine di fatturato fino (in casi particolarmente evoluti) al clima organizzativo. Tutto questo però non basta più quando nasce ( ed è quello che sta accadendo ora con urgenza crescente) il bisogno di conoscere e “gestire” in modo programmato e prevedibile nei suoi effetti le dimensioni meno trasparenti dell’agire umano al lavoro: le potenzialità, la motivazione, la capacità relazionale, l’apertura all’apprendimento, il legame con l’azienda, la mentalità, il legame con l’azienda, la fiducia ….insomma cose da psicologi veri con cui le aziende hanno poca dimestichezza operativa ( e anche culturale) visto che nascono (nell’800) presupponendo che le persone sono razionalmente e prevedibilmente mosse dal calcolo del bisogno o dalla ambizione del guadagno. Ma oggi ci siamo resi conto (anche perché le persone sono cambiate, grazie al benessere portato dall’organizzazione produttiva industriale), portando sul lavoro una serie di aspettative e una mentalità diversa, da cui il tema del rapporto vita/lavoro, ora la flessibilità di orario e modalità di lavoro, l’attenzione al benessere in azienda e così via. Ma soprattutto perché le imprese stanno comprendendo, dando prova, come spesso accaduto storicamente, di un insight non sistematico e non ancora chiaramente consapevole ma nella sostanza giusto: sono anche le aziende ad avere bisogno, per reggere la sfida di un intreccio di cambiamenti che sta generando un turning point storico, della qualità delle energie umane. E’ interessante notare che dopo aver pensato per qualche tempo che le nuove tecnologie 4.0 avrebbero risolto i problemi, da un paio d’anni le organizzazioni produttive stanno insistendo invece sulla rilevanza dello human side dell’impresa. Quindi i talenti, la qualità dell’esperienza, il senso di appartenenza, l’apertura mentale, la cooperazione allo scopo nel teamwork… e ovviamente pensano anche ad una revisione delle modalità e del significato stesso della leadership e ad un ritorno ai fondamenti della purpose aziendale da comunicare e condividere. Tutto sta muovendosi, sia pure confusamente e con molte resistenze, in questa direzione. C’è un ma, però.

L’impresa deve comunque organizzare, non può farne ameno. E organizzare il fattore umano, la dimensione psicosociale dell’impresa, un mondo fatto di relazioni e di simboli e di emozioni, la spaventa. Non è attrezzata per questo, nonostante (o forse anche per questo) la pletora di “test” che circolano su decine di diversi aspetti presupposti afferire al fattore umano. Diciamo la verità: in questa area non abbiamo (ancora) nulla di così affidabile e strutturato come SAP®, e sono scarsi dati solidi di dimostrata correlazione tra queste dimensioni “umane” e la redditività finale. Oppure, quando qualcosa c’è, come per es. nel caso dell’engagement, non si capisce bene come gestire in modo chiaro e programmabile l’engagement, semplicemente perché non si sa bene da cosa origini (l’engagement è un comportamento osservabile o una dichiarazione di intento, non un tratto psichico o una motivazione).
E allora? Che fare? Allo stato attuale possiamo (e dobbiamo, il tempo stringe!) agire sulla base di tre decisioni strategiche:

1. Adottiamo una misurazione sistematica in grado di radiografare e monitorare il livello e il pattern degli aspetti psicosociali che stanno alla radice dei comportamenti desiderabili (necessari) per il bene dell’azienda (profittabilità), della società (sostenibilità), delle persone (benessere psicofisico e relazionale). Quindi criteri di rilevazioni con metodo, oggettivabili, in grado di modularsi sensibilmente alla specificità della mia azienda e di offrire indicazioni declinabili per e nella mia azienda. Senza scombinare equilibri e senza inceppare i flussi produttivi, anzi potenziandoli ed ottimizzando la formazione di crescita.

2. Si, ma quali dimensioni di base assumere come chiavi di volta? Qui occorre affidarsi alle scienze sociali e trasferire all’azienda (come sta facendo la psicologia dell’organizzazione) esperienze maturate nella ricerca afferente da molti campi (dalla clinica alla psicologia sperimentale alle neuroscienze). Ad oggi possiamo dire con sufficiente affidabilità che e dimensioni di fondo da assumere come operativamente cruciali per l’umano in azienda possono essere:

  • La mentalità generativa, l’apertura al pensiero produttivo/propositivo disponibile nell’insieme sociale aziendale
  • La psychological safety (il sentire l’azienda come un territorio sicuro per sé)
  • La fiducia di base (relazionale e istituzionale)
  • Il livello di identificazione tra persona e azienda
  • La propensione a lavorare in gruppi di scopo

3.Tradurre i risultati di questi monitor di base in:

  • Strumento di condivisione e scambio coinvolgente e motivante (fase qualitativa sulla base della condivisione dei risultati emersi
  • Organizzazione di gruppi formazione/autoformazione, sulla base delle affinità/diversità emerse nei vari cluster, che sviluppino anche ipotesi di lavoro per migliorare le performance nella dimensione rilevata
  • Supporto ai manager per lo sviluppo di modalità di leadership adatte a alimentare e guidare il cambiamento desiderato
  • Monitoraggio periodico (metrico e qualitativo) dello stato di avanzamenti e dei riflessi sulla produttività aziendale, ed eventuali correzioni e aggiornamenti.

Questo progetto esiste, lo abbiamo battezzato Human Side Metrics (HSM). Non una metrica per promuovere o bocciare, ma strumenti per dare ordine allo sforzo di inquadrare queste dimensioni ed al tempo stesso alimentare la possibilità di fare con consapevolezza. E sempre ad hoc: la mia azienda è un organismo vivente, ha una propria personalità, e non può solo adottare standard generici universalmente validi. Anche perché al momento, in questo campo ancora da arare a fondo, non ne esistono. E, come scienziato sociale, dubito che potranno mai esisterne quanto lo erano in fisica le leggi di Newton. 

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