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Spunti di riflessione

 

Finita anche la droga dell’ufficio, parte la Great Resignation

Di Silvio Lenares 

Se allargo la visuale, spingendo lo sguardo al limite per rendere evidenti alcune dinamiche, vedo subito che, con lo smart working, si è esaurita la "droga" fornita dai miti dell’ufficio, dalle sue liturgie e dall’apparente funzionalità delle recite aziendali.

È una delle poche droghe professionali di un certo effetto rimaste, dopo che negli anni si sono esaurite quelle della carriera, degli aumenti di stipendio, dei bonus e dei benefit. Spariti gli uffici, sono spariti gli altari e gli altarini dei riti della struttura gerarchica.

Quello che posso vedere oggi è un sistema di potere alla ricerca affannosa di un nuovo anestetico, per avere la dipendenza e l’ubbidienza che aveva prima, ma non lo trova. Chiede ai consulenti un nuovo sistema drogante, li spinge a studiare e lanciare nuove liturgie che però non sembrano funzionare.

I nomi delle narrative con cui la propaganda aziendale cerca di condizionarmi, convincendomi ad adeguarmi e ad alienarmi sono molti: Innovazione, Talento, Engagement,  Storytelling, Evoluzione, Sviluppo, Sostenibilità, Wellbeing... notate come la tripletta Motivazione - Emozione - Appartenenza sia finita in secondo piano: sa di vecchio.

Davvero sono questi i temi, le storie che dovrei raccontarmi per tenere me stesso distratto dai miei veri bisogni? Davvero recitando le narrative dell’azienda dovrei rendermi cieco alla violenza della gerarchia, accettando d’essere deprivato della possibilità di lavorare creativamente per un senso condiviso?

Le persone che ho incontrato nelle tante call dello smart working m’hanno detto: «Lavorando da casa mi sono reso conto che sto meglio anche con molto meno; mi rendo conto di quante falsità, impegni senza senso, ridicoli riti dell’ufficio ho dovuto subire». O ancora: «Se ci penso oggi voglio cose ben diverse da quelle che pensavo di volere tempo fa: voglio un lavoro che abbia un senso, che sia pagato in modo adeguato e che abbia obiettivi che condivido davvero. Oddio, mi rendo conto che lo volevo anche una volta, solo che mi sono fatto fregare dalla carriera, dal caricarmi di responsabilità, dal mito del fare sempre di più».

È un fatto che il lavoro a distanza abbia privato molti manager dei simboli della gerarchia e della loro corte ossequiosa in ufficio. Questo ne ha messo a nudo, in qualche caso, la superfluità nell’organizzazione aziendale. «Lavorare con dei manager così è insopportabile» m’è stato detto.

Sappiamo bene che le organizzazioni nella rivoluzione covid non hanno rivisto la struttura gerarchica, in attesa che tutto tornasse normale come prima. Quel che non hanno voluto, né saputo fare è stato modificare e rinnovare linguaggi, relazioni e scopi comuni.

Almeno noi che lavoriamo in consulenza con e per le persone, non stupiamoci delle dimissioni. Almeno noi che sappiamo vedere che sono le diverse cornici a dare un diverso senso agli stessi fatti, almeno noi, dico, proviamo a guardare con coraggio ai presupposti e ai paradigmi delle aziende dove lavoriamo o dove entriamo: osserviamo, senza giudicarla, la cultura che le pervade. Così facendo, le dimissioni, tante o poche che siano, diventano anche la naturale conseguenza di quanto ho scritto sin qui. In questa cornice non c’è da stupirsi, proprio come non ci stupiamo quando apriamo il rubinetto di casa ed esce acqua.

Mi vien da dire che se un tossico decide di smettere, il problema è del pusher che perde un cliente. Se a disintossicarsi sono in tanti, ad agitarsi è il narcotraffico, con tutto il suo indotto, ed è quello che mi pare stia accadendo.

I giovani

E veniamo ai giovani che sono ben consapevoli dei danni del sistema drogante delle aziende e non rispondono alle costrizioni alle quali i manager boomer sono stati così bene abituati, tanto da esserne assuefatti.

Mi permetto di suggerire che quel che aiuta a lavorare con i giovani è l’avere scopi davvero ben condivisi, dare loro uno stipendio adeguato e assicurarsi che abbiano consapevolezza che quel che stanno facendo ha un senso concreto per loro stessi, per l’organizzazione, per i clienti e magari anche per il pianeta.

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Cosa possono fare i manager?

Di certo non mi illudo che le gerarchie possano smettere d’essere la struttura organizzativa di base della nostra società.

Quello che possiamo fare come manager è riconoscerci nella capacità di dirigere e di orientare l’attenzione delle persone per le quali lavoriamo e prenderci degli spazi di libertà e responsabilità usando una parte del potere per cui abbiamo delega. Possiamo creare nell’organizzazione gerarchica delle "bolle", delle aree operative e funzionali in cui chi partecipa comprende e si allena a muoversi nelle dinamiche complesse di una vera partecipazione. Sono modi di lavorare con i quali impariamo ad usare consapevolmente le strutture disponibili (senza problematizzare ciò che manca), mentre generiamo e ri-generiamo relazioni utili e funzionali per gli scopi che condividiamo e che danno il senso dell’azione e direzione al vivere.

 

In conclusione...

Concludendo questa ampia cornice di presupposti nella quale ho voluto vedere il movimento delle dimissioni o del cambio di lavoro, aggiungo che mi pare quanto meno vano il tentativo di trovare una nuova droga che possa riportare nel tunnel chi si è disintossicato dalle liturgie dell’ufficio. Allo stesso tempo capisco gli interventi scomposti di imprenditori o manager tossici, che temono di doversi svegliare alla realtà del senso vero del produrre.

 

Tempo di lettura: 9min