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Talenti e organizzazione aziendale

La questione dei talenti e i  limiti della prospettiva organizzativa tradizionale

Assieme ai temi dell’engagement, dell’empatia e della relazione, il tema dei talenti è emerso da qualche tempo come parte della ondata “human oriented” nella organizzazione e dell’HR.

Una lettura degli articoli - da blog di settore o da più sistematiche considerazione di grandi società di consulenza - sembra indicare che individuare, attrare e mantenere, valorizzare i talenti sia qualcosa di importante per i destini della propria Azienda, specialmente in questa situazione di transizione storica e di crisi pandemica.

E perché mai i talenti sarebbero preziosi proprio in questa evoluzione critica? Beh, sembrerebbe che “persone di talento” garantiscano all’Azienda maggiore creatività, flessibilità, autofertilizzazione, leadership verso i colleghi. Quindi i “talentuosi” garantirebbero tutto quanto è divenuto il Graal di aziende bisognose di innovazione “dal di dentro”, vale a dire dipendenti in grado di svolgere le loro mansioni in modo agile, autonome e responsabile, motivato, propositivo. Insomma lavoratori con una identificazione imprenditoriale totale con il lavoro loro affidato.

Un desiderio comprensibile da parte delle aziende, che crea qualche difficoltà logica: proviamo a elencarne qualcuna.

La asimmetria motivazionale. Persone “di talento” così intese sembrerebbero più al loro posto in attività autonome o in società di cui si sentono davvero parte. Perché devolvere energie che fanno così parte di quello che “sono” a qualcosa che devono “fare” per altri, secondo una visione e regole che non hanno scelto loro? Per denaro o carriera, si dirà. Ma persone in grado di lavorare “secondo talento” non sono mosse innanzitutto da queste leve… Quindi: se esistono persone che vivono il lavoro come parte integrante della loro crescita personale, che non fanno distinzione tra il loro lavoro e la loro vita, non sarebbe logico aspettarci che evitino di donare questa loro energia vitale a organizzazioni burocratiche capaci di remunerare solo materialmente? Le nuove generazioni in particolare sentono questa distonìa, come testimoniano ormai ampiamente dati di atteggiamento e di scelte lavorative.

L’equivoco della staticità. Nell’uso “aziendale” del termine “talento” è evidente il permanere della idea del “talento” nell’area delle “doti” di una persona, in qualche modo innate o fissate ormai saldamente nella loro personalità. Ora, a parte il fatto che questo concetto non trova riscontro negli studi di psicologia scientifica e quindi ben poco di chiaro possiamo dirne, dovremmo tenere presente che questa parola indica originariamente una moneta, e una moneta tra le più preziose. Lo specifico del denaro sta nel non essere una “cosa precisa” ma nel poter fluidamente diventare tante cose diverse, a seconda delle necessità o desideri. Il fatto che si tratti poi di una moneta particolarmente preziosa significa che consente di avere un raggio di trasformazione in cose o servizi particolarmente desiderabili e più difficili da ottenere.

Il che giustificherebbe la ricerca aziendale di talenti in relazione alla flessibilità di impiego e alla preziosità del loro apporto. Sembrerebbe coerente, ma in realtà a ben guardare ci troviamo dinnanzi a due contraddizioni.

Se consideriamo il talento come una “superdote” o “forte vocazione” (il talento di Mozart per la musica, per es.) allora non possiamo accreditarlo di flessibilità: altrimenti Einstein sarebbe rimasto a lavorare nel suo ufficio brevetti di Berna per tutta la vita. Casomai sarebbe l’azienda a doversi adattare e fare spazio al talento.

Se consideriamo invece il talento come un potenziale aperto, allora dobbiamo sapere cosa farne e come educarlo. L’azienda dovrebbe essere capace di individuare quanto meno il raggio di apertura potenziale e valutare in fase di recruiting se la direzione converge con l’evoluzione verso cui l’azienda vuole/deve andare, e poi capace di “allevare” il talento. Il che richiede una chiarezza di progetto e di making sense che in questa fase storica appare particolarmente assente (e non potrebbe essere altrimenti).

Il mito illude ma non risolve. Alla fine il punto cruciale, al di là della superficialità concettuale e metodologica con cui viene attualmente trattato il tema del talento, è che solo una organizzazione pienamente consapevole del particolare contesto evolutivo e della transizione storica in cui ci si trova può attrarre e coesistere felicemente con i “talenti” (qualsiasi cosa esattamente si debba intendere con questa parola). Cercare soluzioni mitiche all’esterno (o anche all’interno delle proprie “risorse umane”) sembra servire solo a rimandare la necessità di rivedere la cultura organizzativa, l’organizzazione delle persone, l’integrazione tra vita e lavoro. L’azienda deve ripensare sé stessa, più prima di sapere davvero di cosa ha bisogno.

Certo, si tratta di qualcosa di ben più difficile e rischioso. Ma non è che evitiamo l’iceberg cercando per il nostro Titanic marinai di talento. Ci vuole un radar nuovo.

 

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