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Approfondimenti Human Side Metrics

alcuni articoli scritti dal Prof. G.Siri

 

Provaci ancora, Impresa!

A cura del Prof. Giovanni Siri

Nell’improbabile caso che qualcuno abbia seguito la serie di interventi che precede, potrebbe trovarsi a riflettere su quanto sia facile criticare e quanto sia difficile offrire soluzioni.

In effetti il filo conduttore di questa serie di articoli ha fin qui cercato di visualizzare l’empasse in cui veniamo a trovarci, incapaci di rinunciare a modelli di enorme successo per quasi due secoli e d’altro canto sospinti dagli eventi ad un cambiamento per il quale però non abbiamo disponibile nessun progetto alternativo. Così il pensiero d’impresa finisce o con il rafforzare le abituali prassi di gestione delle crisi convincendosi che ben presto tutto tornerà “normale” (magari con qualche piccolo ritocco) o con il rassegnarsi all’idea di una disruption così poco prevedibile da non consentire strategie di affrontamento, né tantomeno di coglierne le possibilità positive.

Questa resilienza tattica e reattiva, talora opportunista, sta pervadendo la politica, la gestione delle istituzioni, la quotidianità delle persone, e naturalmente anche le aziende. Queste ultime peraltro mostrano assai più di altre realtà sintomi concreti di sensibilità e di tentativi di reazione proattiva alla paralisi fatalista e all’ottimista da struzzo da cui sono circondate.

Pensiamo ai premi Nobel per l’economia assegnati dagli inizi degli anni 2000 a studiosi critici delle teorie economiche classiche e del neoliberismo (come, Stiglitz Kahneman, Elinor Olstrom, Esther Duflo); al ritorno del tema abbandonato per anni della cultura organizzativa; alle iniziative sul workplace wellbeing; alla leadership generativa; alla forte ripresa del tema del lavoro in gruppi; ai temi del making sense e della purpose aziendale; allo sforzo formativo attivato per le soft skills; al lavorio intenso sull’elevazione dell’engagement e della resilienza; alla flessibilità di rapporti e di orari; ai talenti che si affiancano alle competenze specialistiche; alla revisione profonda dei criteri di assessment; alla responsabilità socio-ambientale che deve rientrare tra gli scopi; alla integrazione tra tecnologie intelligente e persone nell’impresa… nessuna realtà ha aperto tutti questi fronti né ha provato come le aziende a cercare azioni praticabili.

Tutti temi di certo spinti dalla necessità di affrontare una realtà che impone nuove modalità per pervenire al profitto e competere con successo (ma la logica del competere sta pure essa mutando di senso nelle imprese ad assetto variabile di cooperazioni di scopo temporanee e convergenti): non si tratta per le imprese di applicare teorie astratte o di inseguire istanze morali vagheggiate dalle ideologie e dai social. Si tratta banalmente (per fortuna) della mera necessità di sopravvivere e se possibile di cogliere occasioni di sviluppo. Quanto a queste ultime l’economia ha già ben compreso che nell’ecogreen si annidano molte opportunità di new business sia nel target pubblico che in quello privato, così come nelle nuove modalità di distribuzione e di servizi medico-sociali o nelle emergenti esigenze di un uso più realmente sociale e formativo dei nuovi media. Nel giro di pochi lustri dovremo anche affrontare il tema dell’esubero umano nel lavoro materiale: il tasso di produttività in due secoli di “macchine” è aumentato fragorosamente, mentre il numero di ore umane di lavoro sta parallelamente diminuendo: già nel 1930 John Maynard Keynes in una sua preveggente conferenza (dedicata ai propri nipotini) argomentava che nel giro di qualche decennio il tema critico (nel mondo occidentale) non sarebbe stato il lavoro ma il tempo libero. Figuriamoci cosa accadrà quando le nuove tecnologie intelligenti saranno davvero implementate (e chiediamoci anche perché si sta tardando di fatto a farlo).

Per le organizzazioni produttive il punto chiave oggi sta altrove: sono pronte a sostituire le opportunità e modalità di business, ma non altrettanto pronte a modificare il contesto della workplace in modo tale da rendere vincente questa transizione. E mentre per qualche anno questa difficoltà veniva connessa alle difficoltà del salto tecnologico 4.0, negli anni più recenti sempre più (a partire dai messaggi del WEF, pure nato attorno alla idea delle tecnologie caratterizzanti la quarta rivoluzione industriale) ci si sta occupando del fattore umano. Con epicentro prima sulle soft skills, poi su engagement, oggi su resilienza e antifragilità o su team di scopo e leadership generative. In altri contributi ho già cercato di richiamare le ragioni di questa priorità: si tratta ora di ora di indicare con quale prospettiva e metodo intervenire sullo human side proponendo iniziative fertili e redditizie sia per le persone che per l’efficienza di impresa che per la società intorno all’impresa.

Cominciamo con il ribadire che nessuno ha ricette magiche da proporre: la transizione verso una globalizzazione dell’incertezza sistemica non consente a priori di elaborare modelli a tavolino per poi dire agli “operativi” di applicarle. Per la buona ragione che la imprevedibilità di un mondo ipercomplesso e interdipendente non è contingente (non dipende dal fatto che c’è un po' di nebbia sui mercati o difettiamo di Einstein dell’organizzazione e dell’economia) ma è strutturale. Come l’intelligenza artificiale, e come dal 600 la ricerca scientifica, dovremo elaborare ipotesi a partire dai dati e dalle esperienze che altri condividono con noi, testarle nella realtà e migliorare l’approssimazione imparando dagli errori e ben consapevoli che questi nostri tentativi di capire e reagire altereranno il quadro di realtà da cui siamo partiti esigendo un continuo e circolare ri-cominciamento evolutivo dei nostri modelli. Come in una danza di corteggiamento in cui poco conosciamo del nostro oggetto di desiderio ogni passo di danza provocherà una reazione dell’altro e quindi nostra e così via in una spirale senza fine. Quello che sappiamo, anche dalla esperienza metodologica della fisica quantistica, è che il nostro modo di interpretare le cose influisce sulla realtà orientando la probabilità degli eventi, ma senza che noi possiamo compiutamente prevederli e determinarli. Lo sappiamo bene nelle nostre esperienze relazionali in cui ci muoviamo perennemente per tentativi ed errori e aggiornamento delle ipotesi, sapendo bene che ogni irrigidimento a costringere la relazione nel nostro progetto finisce per rompere o rendere patogena la relazione stessa.

E dunque? Come seminare futuro se non so bene cosa aspettarmi dalla semina? Intanto se è vero che non possiamo sapere bene cosa aspettarci sappiamo di conseguenza che dobbiamo prepararci all’inatteso. Quindi dobbiamo formare organizzazioni e persone capaci di affrontare l’imprevisto, di cogliere collegamenti di sistemi complessi, di disporre di diversi punti di vista per elaborare intuizioni in forma di ipotesi, di avere velocità di cambiamenti in corso d’opera, di saper sfruttare il pensiero di gruppo per fare il salto creativo che solo l’interazione cooperativa consente. Solo in questo modo possiamo disporre di un terreno fertile per la generazione di idee, ipotesi, progetti e d’altro lato capace di interazioni relazionali e culturali tali da garantire la determinazione che consente di mantenere fermo lo scopo mutando mezzi e percorsi, o anche di accettare l’errore e la sconfitta senza affondare ed anzi trasformandolo in occasione di apprendimento (il senso profondo della resilienza, da non assimilare a testardaggine e ostinazione). E per questo tipo di background non si può che lavorare sul versante umano: le tecnologie 4.0 e il loro tipo di intelligenza sono indispensabili per affrontare la complessità plastica e instabile che stiamo intuendo come nostro habitat futuro, ma solo il lato umano può generare il progetto a cui servono e concertarne un uso al servizio della creatività.

Per preparare questo terreno di cultura vi sono tre compiti da assolvere, possibili e operativi, niente affatto complicati né teorici. Tre linee di azione bottom-up in grado di innestarsi senza troppe scosse nella macchina organizzativa attuale aiutandola dal di dentro e senza soluzione di continuità ad evolvere verso sistemi più aperti, culturalmente e tecnicamente polimorfi, orientati alla generazione flessibile di ipotesi e alla coltivazione di progetti in una vision dell’impresa più ampia di quella ultimamente dominante votata solo al profitto come fine unico e ultimo.

La prima cosa da fare è prendere atto del fatto che la cultura organizzativa nata nella prima modernità (e solo aggiornata ma mai realmente mutata) non è in grado di vedere le persone, e che quindi occorre mettere i responsabili della vita d’impresa in grado di vederle in modo tale da poter operare consapevolmente per ottenere dalle persone quello che ormai le aziende sanno essere indispensabile per il futuro e che solo dalle persone può venire: per esempio l’engagement, la resilienza, l’antifragilità, il bonding e la fedeltà, la motivazione, l’apporto ideativo, l’autonomia e la responsabilià. E naturalmente anche per gestire la flessibilità richiesta oggi alle imprese: di orario, di funzioni, di legami (non solo dipendenti ma legami ad assetto variabile a seconda del bisogno) e così via. Allo stesso modo nell’800 si rese possibile vedere le nuove variabili del lavoro legati alla macchine, alle fabbriche, alle specializzazioni, ai ruoli di capo e dipendente, al contratto e al salario… nulla di tutto ciò che oggi ci appare ovvio e naturale esisteva allora o aveva forme parziali e diverse da quelle che per noi sono “normali”. La stessa mentalità normativa e scientifica della organizzazione e della gestione economica fu varata ed insegnata nel giro di pochi decenni: un miracolo storico, uno sforzo enorme e di grande successo. Allo stesso modo oggi dobbiamo rendere visibili, misurabili, gestibili per definire obiettivi in modo controllabile e per correggere la rotta quelle variabili che hanno a che fare con lo specifico umano e che mancano dalla cultura originaria della fabbrica. Mutuando questa volta non solo dall'economia e dall’ingegneria ma dalle scienze sociali, possiamo definire le dimensioni chiave che qualificano le persone nel loro rapporto con la workplace e costituiscono la radice di quegli output così intensamente perseguiti oggi, dalle soft skills alla resilienza, come sopra richiamato.

Per mio conto proporrei cinque dimensioni chiave, rilevabili con metodologia metrica strutturata con output gestibili per decisioni operative. Due riguardano il check sintetico delle due dimensioni che indicano la presenza di risorse energetiche per affrontare il cambiamento: la forza dell'identità condivisa dell’azienda e l’intensità della percezione di psychological safety, ovvero il senso di sentirsi “a casa” nella propria azienda. Altre due visualizzano le dimensioni chiave per una cultura organizzativa: NineMinds rileva il profilo della mentalità aziendale, NineTrust il profilo della fiducia di base che circola nel contesto di lavoro, e infine il Monitor delle Attese Formative (MAF) che rileva il tipo di involvement nella formazione nonché il tipo di contenuti e l’approccio metodologico desiderati. Li ho citati come mero esempio di qualcosa che è nelle corde delle pratiche di gestione, è metrico, è operativo, ma consente di “maneggiare” variabili con cui l’azienda non ha consuetudine: il tutto riconducendo i dati ad alcune dimensioni di base sottese alla moltitudine spezzettata di test o questionari di atteggiamento.

In secondo luogo occorre aiutare la visione aziendale ad uscire dalla ideologia dell’individualismo competitivo per consentirle di sfruttare le qualità che emergono solo dalla interazione di gruppo come la creatività, la comunicazione che alimenta la relazione, il feedback che supporta la fiducia, la resilienza. Questo si può fare iniziando a svolgere almeno parte dei compiti normali attraverso gruppi di scopo e team generativi: formando i gruppi in modo idoneo (attraverso strumenti strutturati e di monitor come per esempio il TeamLearningBuilding), formando regole del team generativo, mantenendo per breve tempo un tutoraggio che garantisca l’assimilazione e la autogestione delle regole e dei ruoli. Non si tratta di una interruzione del flusso normale, ma di un apprendere facendo, rimanendo produttivi per l’azienda.

In terzo luogo (last but not least) si tratta di alimentare un salto culturale di manager, dirigenti e quadri, perché a loro si chiede di estendere non solo le loro competenze ma la loro cultura d’impresa: si tratta infatti di includere nel loro bagaglio culturale le scienze sociali, la capacità di ragionare per scenari, la sensibilizzazione all'importanza decisiva dell'autonomizzazione responsabile dei dipendenti attraverso la tutorship e la formazione di uno spirito di gruppo legato a specificità di scopo. Pensare per scenari, finalità, scopi ed obiettivi, trasmettere purpose e making sense saranno la via di legittimazione più radicale del loro ruolo e della loro autorevolezza, e non il potere loro consegnato.

Non si può chiedere a nessuno di fare tutti questo da solo: occorre il supporto di agenzie formative affidabili, dalle università alle società di formazione ai consulenti, ed occorre un metodo di full immersion anche dei consulenti formativi nell’humus specifico ad ogni impresa. E naturalmente occorre formulare un percorso formativo chiaro, come si fa per un corso di laurea, inclusivo di contenuti e metodi didattici in grado di accompagnare i manager già operativi usando la loro esperienza reale come base di dialogo e di apprendimento fattivo. Solo se avvertirà questa “fatica” ulteriore come un aiuto portatore di soluzioni e di stimoli interessanti il manager si sobbarcherà questo impegno. E tutti coloro che operano nel campo della cultura organizzativa e della formazione devono fare la loro parte in questa decisiva estensione culturale della mentalità d’impresa.

Le azioni di cui sopra non sono disruttive e creano “dal di dentro” l’humus per l’evoluzione progressiva (ma veloce, perché il tempo stringe) verso un'organizzazione “aperta” e “polimorfa” (multi-talent), proteiforme e plastica che non si crede più “padrona della storia”, ma che è capace di danzare con il divenire delle cose in una interdipendenza complessa e sistemica, nuotando in essa con la generazione continua di progetti e di ipotesi, di idee, e imparando dagli errori e dalla dialettica delle diversità che sa legare assieme alimentando fiducia di base, autonomia e responsabilità. Un'organizzazione che, utilizzando per i suoi fini le risorse 4.0 a pieno ritmo, si nutre di una interazione di competenze, capacità, talenti e visioni diverse, liberandosi del mito clerico-militare dell’uniformità burocraticamente monolitica o dell’esercito robotico guidato da superman. Certo, possiamo sempre sederci sulla riva del fiume e aspettare che passi il cadavere del nemico: solo che in questo caso rischiamo di essere noi i peggiori nemici di noi stessi.

Proviamoci, si può fare. Insieme. 

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